sabato 17 ottobre 2009

"Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto" (Seneca)

Il senso della fuga del tempo e della caducità delle cose percorre come un brivido febbrile tutta l'opera di Seneca. Ad alimentarlo, entro il solco profondo della speculazione stoica, concorre la coscienza di una condizione politica gravante come insidia quotidiana sulla classe senatoria romana, posta sotto l'arbitrio di un potere imperiale ormai divenuto tirannide. Osteggiato da Caligola, esiliato da Claudio (e il successore, Nerone, gii darà la morte), Seneca sa che la vita è un terreno di lotta minato dall'ansia e dalla realtà dello scacco.A questa realtà egli oppone il fronte di una problematica saggezza, che invita a liberare lo spazio breve dell'esistenza dalle futili tensioni che lo contraggono e lo consumano, vanificandone la potenziale ricchezza. Il tempo è il bene più prezioso dell'uomo; ma è anche quello più facilmente misconosciuto e dissipato. Ecco l'impietoso spettacolo dell'alienazione umana, la massa frenetica degli affaccendati, il dramma delle vite consunte dalla brama di ricchezza e di potere; e di contro, in aristocratica solitudine, la figura del saggio, che nel dominio razionale di sé sa rendere intenso e fecondo ogni momento dell'esistere e fa di ogni giorno una vita.Abile nella tessitura del discorso, tutto tramato di luci e di ombre, Seneca avvince il lettore non solo con il fascino suadente del moralista capace di indagare le pieghe più riposte dell'animo, ma con l'estro del grande scrittore che sa fermare nella parola la molteplicità degli atteggiamenti umani, illuminando aspetti sempre nuovi di antiche verità.

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