sabato 17 ottobre 2009

Il male e la sofferenza in Seneca

“Come tanti fiumi, tante piogge precipitatesi dall’alto, tanta abbondanza di fonti medicamentose non alterano il sapore del mare e neppure lo attenuano, così l’impeto delle avversità non sconvolge l’animo d’un uomo forte: egli rimane nella sua posizione (manet in statu) e trae partito da qualunque avvenimento, perché è più forte di ogni realtà esterna. Ma non dico che non sente gli eventi: li vince, e, per il resto, quieto e placido, si leva contro ciò che lo attacca. Reputa ogni avversità un esercizio (exercitatio). Chi, peraltro, purché uomo e direttamente rivolto all’onesto (erectus ad honesta), non è desideroso di una giusta fatica e pronto ad eseguire doveri anche pericolosi? Per quale uomo attivo l’ozio non è una pena?” In queste parole è già in sintesi tutto l’opuscolo di Seneca e la sua alta spiritualità. Il male, le avversità, il dolore, la sofferenza sono prove a cui l’uomo forte e onesto risponde con fermezza; sono esercizi (grecamente askéseis) cui si sottopone anche volentieri, non diversamente dagli atleti, dai soldati, dai gladiatori; perché “senza un avversario la virtù infiacchisce”. E come i padri spartani sono severi coi figli che fanno sudare e anche piangere, così Dio, come un padre che ama fortemente (fortiter) i figli, dice: “Siano sottoposti a fatiche, dolori e danni perchè acquistino la vera forza (ut verum diligant robur)”.
I guerrieri autentici si gloriano delle ferite e mostrano il sangue che scorre dalla corazza, giacché la virtù è avida di pericoli e di gioia, e pensa alle sue mete, non ai mali che dovrà sopportare.
Ci sono poi i vili, quelli che non sanno resistere e si lamentano sterilmente, e nondimeno sopravvivono e anzi vivono con più agio e più lungo dei forti. E’ vero: sodomiti e scostumati stanno tranquilli tra mollezze e agi; invece alla fatica e alle armi vengono chiamati i migliori (labor optimos citat); perché sono gli uomini che vegliano negli accampamenti e combattono in armi e magari sono feriti e uccisi.
Il problema che l’opuscolo senecano affronta è quello: perché disgrazie capitano agli uomini onesti se esiste la Provvidenza?
Esiste, comincia a dire Seneca, un ordine, una legge eterna che è ovunque e regola gli accadimenti; e questo mondo non può non avere un custode. Dietro l’apparente irregolarità dei fenomeni esiste la ferrea legge della causalità che provvede razionalmente a che la realtà li conservi nel suo stato. Innanzitutto, quindi, Seneca ribadisce la tradizionale dottrina dell’ordo cosmico razionale (pronoia, providentia o heimarmene, fatum) formulata in chiave eminentemente immanentistica e panteistica e conformemente ad un atteggiamento essenzialmente cosmocentrico, per quanto numerosi siano gli spunti teistici (però ininfluenti per la sua concezione globale della realtà).
Questa è per Seneca una certezza incrollabile: la realtà è buona e nient’affatto priva di significato. Allora perché capitano disgrazie agli onesti, mentre i disonesti prosperano nel lusso e nella salute? E questo è anche il problema di Lucilio, il destinatario dell’opuscolo, che non dubita della Provvidenza ma se ne lamenta.
Ecco la soluzione di Seneca: la sofferenza è esercizio che Dio ci infligge perché la virtù umana possa esistere e fortificarsi; quindi è un bene. Peraltro solo il vizio è male, il resto è indifferente. Seneca, non discostandosi dall’insegnamento tradizionale (gli antichi non pretendevano né volevano essere originali) accentua romanamente il momento della lotta nel rapporto tra l’uomo e la sofferenza, delineandone così una concezione definibile a buon diritto “agonistica”. Batte sull’impegno, sull’azione, sulla lotta anche sanguinosa, per cui la vita risulta un costante duello tra l’uomo o meglio il suo spirito indomabile e la realtà, a volte apparentemente iniqua o indifferente. Quest’ultima però non cessa neanche un istante di essere buona e ordine assolutamente significativo. Il male è piuttosto la condizione della moralità dell’uomo onesto; è l’antagonista ineliminabile e necessario.

2 commenti:

  1. Una concezione e una soluzio molto interessante e soprattutto reale e vicina all'anima dell'uomo.Seneca riesce ad entrare nel profondo con questa visione del male.

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  2. Purtoppo non c'è una legge che faccia si che vivendo una vita all'insegna delle buone azioni non capitino cose brutte e che magari quella persona più cattiva o meno capace possa vivere una vita migliore pur meritandola meno. Dobbiamo, dunque, vivere una vita felice e onesta, per noi, per stare in pace con la nostra anima, in pace con noi stessi. Chi crede che non sia necessario fare del bene o agire secondo morale, vivrà forse una vita felice ma semplicemente lontana dalla morale comune degli uomini.

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