Piccolo trailer tratto dal gladiatore
Spesso non bastano insegnanti che spiegano e alunni che studiano, spesso gli stimoli possono essere dati da qualcosa che non sia un libro. Nel 2010 possiamo dire che abbiamo l'opportunità si usufruire di tecnologia avanzata e non, per cui perchè non ammettere che si possa imparare qualcosa anche da un film? Un film che sia storico, psicologico, realista, romantico. Madame de Stael nell'800 invitava gli intellettuali classici ad aprirsi a tutto ciò che di nuovo ci fosse nella letteratura, io nel XXI secolo dico agli insegnanti: viviamo in un mondo che ha un miliardo di lati positivi ma nel nostro pessimismo non riusciamo a notarli.. apriamo gli orizzonti ad una scuola che non sia tradizionale, approfondiamo tutto ciò che studiamo, non limitiamoci ad essere persone "tra le righe", rompiamo gli schemi.. E perchè non iniziare imparando qualcosa da un buon film?
martedì 27 ottobre 2009
sabato 24 ottobre 2009
Er Colosseo
Roma:il simbolo più mastoso e suggestivo che ancora oggi possiamo ammirare.Ecco la sua storia
Anfiteatro Flavio-Colosseo
Guardate questo video e scoprirete la settima meraviglia del mondo!
Anfiteatro Flavio-Colosseo
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sabato 17 ottobre 2009
La morale in Seneca
Il punto focale del pensiero morale di Seneca consiste nella precisa determinazione concettuale di ciò che è bene e di ciò che è male secondo i canoni della storia. Bene è ciò che conserva e incrementa il nostro essere, male è ciò che lo danneggia. Dunque la filosofia si impone come terapia dei mali dell’anima, Senza la filosofia l’animo è malato. “Solo la filosofia può svegliarci, dice Seneca, essa soltanto può riscuoterci dal nostro sonno profondo: consacrati tutto a lei” (Lettere, 53,8). Questo modo di filosofare che mirava all’essenzialità e alla chiarezza, implica una precisa presa di posizione contro due tendenze: in primo luogo contro ogni forma di indagine mirante alla pura erudizione, alla mera ricerca di dati e nozioni; in secondo luogo, contro i problemi teorici sempre più sottili cui si dedicavano non pochi professori di filosofia. La verità, secondo Seneca, può e deve essere espressa con chiarezza e semplicità.
Ora, poiché l'uomo si distingue dagli altri esseri per la natura razionale del suo animo, si dovrà distinguere ciò che in lui conserva e incrementa il suo essere animale e ciò che invece conserva e incrementa il suo essere razionale, il suo logos. Dunque i veri beni sono solo i beni morali, quelli che fanno buono l'uomo e che lo rendono virtuoso. Bene è per l'uomo solo la virtù, male è il vizio. In breve, la virtù di ciascuna cosa consiste nell'essere perfetta in ciò che ontologicamente la caratterizza. Va lodato colui che possiede l'unico vero bene dell'uomo,che è la virtù morale, e non chi possiede ricchezza o nobiltà di nascita o potere. Fra i beni e i mali, ossia fra la virtù e il vizio, stanno molteplici cose. Tutte le cose che riguardano
il corpo e la vita fisica e ciò che è ad essi connesso (vita, salute, piacere, bellezza, forza, infermità, povertà, bruttezza ecc.) non giovano né nuocciono all'anima razionale e per questo vengono considerate moralmente indifferenti. Ma è evidente che alcune cose moralmente indifferenti saranno preferibili e altre non preferibili. Il vero bene, ossia la virtù, riguarda ciò che sei (la tua essenza di uomo), i preferibili riguardano invece ciò che tu hai(le cose che ti appartengono e chi ti riguardano solo dal di fuori). Tutti i mali, le angosce e le lotte degli uomini rientrano sempre e solo nella sfera dei preferibili e mai nella sfera della virtù: ai primi si riferiscono tutte le illusioni di felicità, e quindi l'infelicità; alla seconda la vera e autentica felicità. I grandi mali non stanno tanto nelle cose quanto nella valutazione sbagliata che noi diamo di esse. Esiste per l'uomo la felicità? Sì, vivere felici equivale a vivere secondo natura e vivere secondo natura è vivere secondo la verità che la ragione coglie, e quindi è vivere nella dimensione del Logos. La felicità è armonia interiore, armonia dell'uomo con sé,con le cose del mondo e col divino. La felicità non è ciò che consegue alla virtù, ma la virtù in sé e per sé. La virtù è autosufficiente in tutti i sensi. L'uomo felice è artefice della propria vita, in quanto non si lascia mai vincere né condizionare dalle cose esteriori, perché punta su se stesso e sulle proprie capacità, pronto ad accettare tutti i risultati che conseguono dalle sue azioni.
Ora, poiché l'uomo si distingue dagli altri esseri per la natura razionale del suo animo, si dovrà distinguere ciò che in lui conserva e incrementa il suo essere animale e ciò che invece conserva e incrementa il suo essere razionale, il suo logos. Dunque i veri beni sono solo i beni morali, quelli che fanno buono l'uomo e che lo rendono virtuoso. Bene è per l'uomo solo la virtù, male è il vizio. In breve, la virtù di ciascuna cosa consiste nell'essere perfetta in ciò che ontologicamente la caratterizza. Va lodato colui che possiede l'unico vero bene dell'uomo,che è la virtù morale, e non chi possiede ricchezza o nobiltà di nascita o potere. Fra i beni e i mali, ossia fra la virtù e il vizio, stanno molteplici cose. Tutte le cose che riguardano
il corpo e la vita fisica e ciò che è ad essi connesso (vita, salute, piacere, bellezza, forza, infermità, povertà, bruttezza ecc.) non giovano né nuocciono all'anima razionale e per questo vengono considerate moralmente indifferenti. Ma è evidente che alcune cose moralmente indifferenti saranno preferibili e altre non preferibili. Il vero bene, ossia la virtù, riguarda ciò che sei (la tua essenza di uomo), i preferibili riguardano invece ciò che tu hai(le cose che ti appartengono e chi ti riguardano solo dal di fuori). Tutti i mali, le angosce e le lotte degli uomini rientrano sempre e solo nella sfera dei preferibili e mai nella sfera della virtù: ai primi si riferiscono tutte le illusioni di felicità, e quindi l'infelicità; alla seconda la vera e autentica felicità. I grandi mali non stanno tanto nelle cose quanto nella valutazione sbagliata che noi diamo di esse. Esiste per l'uomo la felicità? Sì, vivere felici equivale a vivere secondo natura e vivere secondo natura è vivere secondo la verità che la ragione coglie, e quindi è vivere nella dimensione del Logos. La felicità è armonia interiore, armonia dell'uomo con sé,con le cose del mondo e col divino. La felicità non è ciò che consegue alla virtù, ma la virtù in sé e per sé. La virtù è autosufficiente in tutti i sensi. L'uomo felice è artefice della propria vita, in quanto non si lascia mai vincere né condizionare dalle cose esteriori, perché punta su se stesso e sulle proprie capacità, pronto ad accettare tutti i risultati che conseguono dalle sue azioni.
"Non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto" (Seneca)
Il senso della fuga del tempo e della caducità delle cose percorre come un brivido febbrile tutta l'opera di Seneca. Ad alimentarlo, entro il solco profondo della speculazione stoica, concorre la coscienza di una condizione politica gravante come insidia quotidiana sulla classe senatoria romana, posta sotto l'arbitrio di un potere imperiale ormai divenuto tirannide. Osteggiato da Caligola, esiliato da Claudio (e il successore, Nerone, gii darà la morte), Seneca sa che la vita è un terreno di lotta minato dall'ansia e dalla realtà dello scacco.A questa realtà egli oppone il fronte di una problematica saggezza, che invita a liberare lo spazio breve dell'esistenza dalle futili tensioni che lo contraggono e lo consumano, vanificandone la potenziale ricchezza. Il tempo è il bene più prezioso dell'uomo; ma è anche quello più facilmente misconosciuto e dissipato. Ecco l'impietoso spettacolo dell'alienazione umana, la massa frenetica degli affaccendati, il dramma delle vite consunte dalla brama di ricchezza e di potere; e di contro, in aristocratica solitudine, la figura del saggio, che nel dominio razionale di sé sa rendere intenso e fecondo ogni momento dell'esistere e fa di ogni giorno una vita.Abile nella tessitura del discorso, tutto tramato di luci e di ombre, Seneca avvince il lettore non solo con il fascino suadente del moralista capace di indagare le pieghe più riposte dell'animo, ma con l'estro del grande scrittore che sa fermare nella parola la molteplicità degli atteggiamenti umani, illuminando aspetti sempre nuovi di antiche verità.
Il male e la sofferenza in Seneca
“Come tanti fiumi, tante piogge precipitatesi dall’alto, tanta abbondanza di fonti medicamentose non alterano il sapore del mare e neppure lo attenuano, così l’impeto delle avversità non sconvolge l’animo d’un uomo forte: egli rimane nella sua posizione (manet in statu) e trae partito da qualunque avvenimento, perché è più forte di ogni realtà esterna. Ma non dico che non sente gli eventi: li vince, e, per il resto, quieto e placido, si leva contro ciò che lo attacca. Reputa ogni avversità un esercizio (exercitatio). Chi, peraltro, purché uomo e direttamente rivolto all’onesto (erectus ad honesta), non è desideroso di una giusta fatica e pronto ad eseguire doveri anche pericolosi? Per quale uomo attivo l’ozio non è una pena?” In queste parole è già in sintesi tutto l’opuscolo di Seneca e la sua alta spiritualità. Il male, le avversità, il dolore, la sofferenza sono prove a cui l’uomo forte e onesto risponde con fermezza; sono esercizi (grecamente askéseis) cui si sottopone anche volentieri, non diversamente dagli atleti, dai soldati, dai gladiatori; perché “senza un avversario la virtù infiacchisce”. E come i padri spartani sono severi coi figli che fanno sudare e anche piangere, così Dio, come un padre che ama fortemente (fortiter) i figli, dice: “Siano sottoposti a fatiche, dolori e danni perchè acquistino la vera forza (ut verum diligant robur)”.
I guerrieri autentici si gloriano delle ferite e mostrano il sangue che scorre dalla corazza, giacché la virtù è avida di pericoli e di gioia, e pensa alle sue mete, non ai mali che dovrà sopportare.
Ci sono poi i vili, quelli che non sanno resistere e si lamentano sterilmente, e nondimeno sopravvivono e anzi vivono con più agio e più lungo dei forti. E’ vero: sodomiti e scostumati stanno tranquilli tra mollezze e agi; invece alla fatica e alle armi vengono chiamati i migliori (labor optimos citat); perché sono gli uomini che vegliano negli accampamenti e combattono in armi e magari sono feriti e uccisi.
Il problema che l’opuscolo senecano affronta è quello: perché disgrazie capitano agli uomini onesti se esiste la Provvidenza?
Esiste, comincia a dire Seneca, un ordine, una legge eterna che è ovunque e regola gli accadimenti; e questo mondo non può non avere un custode. Dietro l’apparente irregolarità dei fenomeni esiste la ferrea legge della causalità che provvede razionalmente a che la realtà li conservi nel suo stato. Innanzitutto, quindi, Seneca ribadisce la tradizionale dottrina dell’ordo cosmico razionale (pronoia, providentia o heimarmene, fatum) formulata in chiave eminentemente immanentistica e panteistica e conformemente ad un atteggiamento essenzialmente cosmocentrico, per quanto numerosi siano gli spunti teistici (però ininfluenti per la sua concezione globale della realtà).
Questa è per Seneca una certezza incrollabile: la realtà è buona e nient’affatto priva di significato. Allora perché capitano disgrazie agli onesti, mentre i disonesti prosperano nel lusso e nella salute? E questo è anche il problema di Lucilio, il destinatario dell’opuscolo, che non dubita della Provvidenza ma se ne lamenta.
Ecco la soluzione di Seneca: la sofferenza è esercizio che Dio ci infligge perché la virtù umana possa esistere e fortificarsi; quindi è un bene. Peraltro solo il vizio è male, il resto è indifferente. Seneca, non discostandosi dall’insegnamento tradizionale (gli antichi non pretendevano né volevano essere originali) accentua romanamente il momento della lotta nel rapporto tra l’uomo e la sofferenza, delineandone così una concezione definibile a buon diritto “agonistica”. Batte sull’impegno, sull’azione, sulla lotta anche sanguinosa, per cui la vita risulta un costante duello tra l’uomo o meglio il suo spirito indomabile e la realtà, a volte apparentemente iniqua o indifferente. Quest’ultima però non cessa neanche un istante di essere buona e ordine assolutamente significativo. Il male è piuttosto la condizione della moralità dell’uomo onesto; è l’antagonista ineliminabile e necessario.
I guerrieri autentici si gloriano delle ferite e mostrano il sangue che scorre dalla corazza, giacché la virtù è avida di pericoli e di gioia, e pensa alle sue mete, non ai mali che dovrà sopportare.
Ci sono poi i vili, quelli che non sanno resistere e si lamentano sterilmente, e nondimeno sopravvivono e anzi vivono con più agio e più lungo dei forti. E’ vero: sodomiti e scostumati stanno tranquilli tra mollezze e agi; invece alla fatica e alle armi vengono chiamati i migliori (labor optimos citat); perché sono gli uomini che vegliano negli accampamenti e combattono in armi e magari sono feriti e uccisi.
Il problema che l’opuscolo senecano affronta è quello: perché disgrazie capitano agli uomini onesti se esiste la Provvidenza?
Esiste, comincia a dire Seneca, un ordine, una legge eterna che è ovunque e regola gli accadimenti; e questo mondo non può non avere un custode. Dietro l’apparente irregolarità dei fenomeni esiste la ferrea legge della causalità che provvede razionalmente a che la realtà li conservi nel suo stato. Innanzitutto, quindi, Seneca ribadisce la tradizionale dottrina dell’ordo cosmico razionale (pronoia, providentia o heimarmene, fatum) formulata in chiave eminentemente immanentistica e panteistica e conformemente ad un atteggiamento essenzialmente cosmocentrico, per quanto numerosi siano gli spunti teistici (però ininfluenti per la sua concezione globale della realtà).
Questa è per Seneca una certezza incrollabile: la realtà è buona e nient’affatto priva di significato. Allora perché capitano disgrazie agli onesti, mentre i disonesti prosperano nel lusso e nella salute? E questo è anche il problema di Lucilio, il destinatario dell’opuscolo, che non dubita della Provvidenza ma se ne lamenta.
Ecco la soluzione di Seneca: la sofferenza è esercizio che Dio ci infligge perché la virtù umana possa esistere e fortificarsi; quindi è un bene. Peraltro solo il vizio è male, il resto è indifferente. Seneca, non discostandosi dall’insegnamento tradizionale (gli antichi non pretendevano né volevano essere originali) accentua romanamente il momento della lotta nel rapporto tra l’uomo e la sofferenza, delineandone così una concezione definibile a buon diritto “agonistica”. Batte sull’impegno, sull’azione, sulla lotta anche sanguinosa, per cui la vita risulta un costante duello tra l’uomo o meglio il suo spirito indomabile e la realtà, a volte apparentemente iniqua o indifferente. Quest’ultima però non cessa neanche un istante di essere buona e ordine assolutamente significativo. Il male è piuttosto la condizione della moralità dell’uomo onesto; è l’antagonista ineliminabile e necessario.
Imperatore Claudio: "un ragazzo difficile"
Quanto ne sapevi dell'Imperatore Claudio?
Nasce a Lugdunum (Lione) il primo di agosto del 10 a.C., terzo figlio di Nerone Druso, il fratello di Tiberio, e Antonia Minore.Ritenuto mentalmente ritardato fin da piccolo, non gode nemmeno della considerazione dei suoi più stretti familiari, tanto che la madre si riferisce spesso a lui come a "una caricatura d'uomo che la natura ha dimenticato di portare a termine" e ne fa la pietra di paragone della stupidità,misellus per Augusto.Costantemente escluso dalla vita politica - Augusto gli concede solamente una simbolica carica sacerdotale e relegandolo fra gli eredi di terzo grado - ottiene solo nel 37 d.C. dall'imperatore Gaio (detto Caligola e figlio di Germanico, fratello di Claudio) di essere suo collega di consolato per soli due mesi conferitagli per apparenza.Nonostante trascorra buona parte della sua vita all'ombra dei suoi altolocati parenti, Claudio diviene fortunosamente (è il caso di dirlo) imperatore all'età di cinquant'anni suonati, immediatamente dopo la congiura nella quale Caligola viene ucciso.Si narra infatti che in quell'occasione un'aquila fosse volata proprio sopra Claudio, finendo poi per posarsi sulla sua spalla destra.Si narra infatti che in quell'occasione un'aquila fosse volata proprio sopra Claudio, finendo poi per posarsi sulla sua spalla destra.
Esagerato e morigerato al tempo stesso, modesto e iracondo, imprevedibile e ovvio ai limiti della stupidità, Claudio è forse la personificazione della contraddizione. Rifiuta di essere chiamato imperatore e rifugge da qualsiasi ostentazione di potere. Onora i famigliari morti come primo atto del suo imperio e proibisce qualsiasi festeggiamento.proclama un atto di amnistia per tutti quelli che, prima del suo avvento al potere, hanno invocato la restaurazione della repubblica. Contemporaneamente, però, fa giustiziare alcuni di coloro che hanno congiurato contro Caligola,Di solito mite, si lascia trascinare da eccessi d'ira e da palesi crudeltà e prova un perverso piacere di fronte ai patimenti di coloro che vengono sottoposti a tortura, attardandosi ad osservare le smorfie di dolore sul volto dei condannati. Ama visceralmente i combattimenti al circo e spesso costringe anche gente comune a combattere nell'arena. Si pone però con modestia nei confronti del senato e dei magistrati e assiste come un normale spettatore ai giochi che questi ultimi offrono al popolo, tributando loro un rispettoso saluto come un cittadino qualsiasi.Si occupa dell'amministrazione della giustizia con estremo impegno, non diserta i suoi doveri nemmeno durante le feste comandate, revisiona varie disposizioni di legge che ritiene inique cercando di renderle tolleranti a seconda dei casi.Tuttavia le fonti riportano velenosi aneddoti su sentenze quanto mai bizzarre e dettate dall'umore del momentole fonti riportano velenosi aneddoti su sentenze quanto mai bizzarre e dettate dall'umore del momento.La perseveranza dell'imperatore nell'adempimento dei propri doveri diviene proverbiale tanto che le monete coniate sotto il suo impero ricordano la "constantia augusti".La perseveranza dell'imperatore nell'adempimento dei propri doveri diviene proverbiale tanto che le monete coniate sotto il suo impero ricordano la "constantia augusti".Ha una visione politica straordinariamente moderna, egli infatti tende a ritenere la composizione multietnica dei territori annessi una possibilità di progresso piuttosto che un elemento disgregante tanto che Claudio caldeggia la presenza in senato anche di membri provenienti dalle provincie non ancora "romanizzate".Claudio si occupa anche con particolare interesse del miglioramento delle opere pubbliche, in particolare degli acquedotti, terminando le grandiose costruzioni del- l'Aqua Claudia e dell'Anio Novus.
Sviluppi interni: il monopolio politico del Senato
In questi anni si consolida la supremazia e l'egemonia senatoria su Roma, e ciò ovviamente a prezzo di un inevitabile scollamento tra le forze politiche e il resto della popolazione. Il nuovo rapporto tra masse e potere cambia in quanto non si può più governare in modo diretto l'intera cittadinanza romana (sia interna che esterna), dal momento che il suo numero è divenuto ormai enorme; Ma la crescita territoriale e quella finanziaria concorrono anche a creare una realtà più mobile e più dinamica, che mal si adatta alle concezioni oligarchiche patrizie. E da una tale trasformazione si deve partire per capire la reazione 'anti-borghese' del Senato romano, che lo porta ad azioni eclatanti come le accuse di immoralità e di frode fiscale ai danni dello Stato rivolte contro Scipione, accuse in seguito alle quali quest'ultimo sceglierà di ritirarsi a vita privata abbandonando la politica attiva. Se, insomma, questi anni vedono una espansione territoriale verso l'esterno davvero impressionante, vedono anche all'interno dello Stato l'accentramento dei poteri politici attorno al Senato. Dopo la vittoria contro la Macedonia di Filippo V si assiste in questi anni ad una prima forma di imperialismo consapevole di Roma, dettata dalla volontà di estendere il proprio potere e i propri territori: un proposito che trova origine nella "volontà di potenza romana" (esaltata dalle recenti vittorie) ma anche nel bisogno di rispondere alla crisi sociale, e negli interessi economici delle classi alte, soprattutto in quelli della classe commerciale dei cavalieri. La classe patrizia diviene egemone in politica, pur non rispecchiando più al tempo stesso da sola tutti gli interessi e le pulsioni della società romana: in questi anni avviene sì il suo trionfo, ma vi sono anche i primi segni di un suo scollamento politico dal tessuto sociale! Il Senato resterà dunque un'indiscussa autorità politica che, arroccata sui suoi privilegi, governerà con pugno di ferro sia Roma che le sue province. Sarà la nascita dell'Impero sotto Ottaviano a segnare la sconfitta di questo tipo di politica e dei suoi ideali, oramai palesemente inadatti a gestire la nuova situazione, caratterizzata da un numero sempre maggiore di territori e di persone da amministrare, da una maggiore mobilità a livello commerciale, dall'impossibilità insomma di un dominio - in stile nobiliare-arcaico - a senso unico e senza mediazioni (adatto invece a governare una regione più piccola e con un'economia fondamentalmente agricola).
Sarà più facile per voi rendervi conto dell'immensità dell'Impero Romano visitando le mappe aggiunte da Maria Cantaffa nel post precedente.
Sarà più facile per voi rendervi conto dell'immensità dell'Impero Romano visitando le mappe aggiunte da Maria Cantaffa nel post precedente.
Concezione del tempo in Seneca
Il De brevitate vitae affronta il problema del tempo secondo l'ottica del saggio, il quale è consapevole che gli uomini sprecano il tempo a loro disposizione, per poi lamentarsi della brevità dell'esistenza; invece:
"Vita, si uti scias, longa est... Exigua pars est vitae qua vivimus. Ceterum quidem omne spatium non vita, sed tempus est"
La vita, se la si sa impiegare (bene), è lunga...Esigua è quella parte di vita che noi viviamo (davvero). Tutto il resto dell'esistenza in realtà non è vita vera, ma solo tempo.
"Vita, si uti scias, longa est... Exigua pars est vitae qua vivimus. Ceterum quidem omne spatium non vita, sed tempus est"
La vita, se la si sa impiegare (bene), è lunga...Esigua è quella parte di vita che noi viviamo (davvero). Tutto il resto dell'esistenza in realtà non è vita vera, ma solo tempo.
L'impero da Augusto, mappe:
Le abitazioni nella Roma Imperiale
La Domus
Occupata di solito da un'unica famiglia, era la casa urbana delle persone più benestanti. Generalmente costituita dal solo pianterreno, mancava di un prospetto esterno poiché sul lato della strada non si aprivano né finestre né balconi. Gli ambienti erano numerosi e destinati ognuno ad un uso preciso. L'ostium era l'ingresso principale attraverso il quale si accedeva ad un corridoio detto vestibulum a metà del quale si apriva la vera e propria porta di casa; la ianua. A un lato dell'ostium si trovava la stanza del portinaio; cella ostiarii, oppure alcune botteghe; tabernae, che erano comunicanti con la casa e si aprivano sulla strada. Il vestibulum delle case più ricche era molto vasto ed ornato di colonne e di statue. Quello era il luogo preposto ad accogliere i clientes per la salutatio matutina in cambio della quale ricevevano un invito a pranzo o la borsa delle vivande, la sportula. La ianua era formata da una soglia; limen, dagli stipiti; postes, sui quali era posato una architrave di marmo; epistylium, sotto al quale si apriva la porta; fores, a due ante; valvae. Da qui si entrava in un altro corridoio; fauces, che conduceva nella stanza principale della casa; l'atrium. Oltre a quest'ingresso ce n'era uno di servizio; posticum, che da un vicolo laterale alla casa accedeva direttamente al peristylium. Nell'atrium, di fronte all'entrata, era sistemato il lectus genialis, in ricordo dei tempi in cui quest'ambiente era considerato il cuore della casa perché vi si accendeva il focolare domestico ed era insieme stanza da lavoro, di ricevimento e camera nuziale. Con lo sviluppo degli ambienti posteriori della casa, l'atrio rimase un'anticamera grandiosa e sontuosamente arredata dove erano conservate le immagini di cera degli antenati; imagines, i Lares, déi protettori della casa, in una cappelletta detta lararium, la cassaforte domestica; arca, e talvolta anche un ritratto marmoreo del pater familias. Un tavolinetto di marmo; cartibulum, addossato al muro costituiva il ricordo dell'antico focolare.
Questa è la tipica casa dell'età imperiale.Dite cosa ne pensate di questo ambiente che fa parte di quel periodo anche confrontando con oggi.A voi i commenti.
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